Giochi dell'Oca e di percorso
(by Luigi Ciompi & Adrian Seville)
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"Introduzione"
Autore: Mascheroni&Tinti 
Anche noi pensavamo che il gioco dell’Oca fosse un innocente passatempo infantile da giocarsi preferibilmente, come La tombola e Il mercante in fiera, a Natale o aspettando la Befana, rare occasioni in cui grandi e piccini si ritrovano per divertirsi insieme. Ma nella Civica Raccolta delle Stampe A. Bertarelli di Milano (terreno della nostra ricerca) abbiamo scoperto che queste tavole d’indubbio valore artistico, “salvate” dall’amore di uno dei maggiori collezionisti dei nostri tempi, sono documenti altrettanto nobili quanto quelli conservati negli archivi ufficiali, oggetto di studio da parte dei più qualificati storiografi. È possibile dunque, ed è quel che abbiamo cercato di fare, ricostruire aspetti del costume, idee e atteggiamenti, momenti della storia, raccontati fin dal 1600 con quello stesso spirito e linguaggio con cui la civiltà dei media trasmette oggi la sua cultura. Questo libro non ha la pretesa di esaurire gli innumerevoli argomenti del gioco, né di illustrare le diverse connotazioni regionali o nazionali; si propone di offrire un modello per “leggere” (e imparare) quello che il cammino dell’Oca può raccontarci. Le tavole da noi rintracciate ci hanno imposto un criterio di analisi e di classificazione non omogeneo: a volte è stato possibile riunire i documenti secondo un tema comune e seguirne anche lo sviluppo da un punto di vista cronologico, altre volte invece la sporadicità del ritrovamento, caratteristica di queste stampe usate come materiale di consumo, ci ha suggerito di prendere piuttosto in considerazione le diverse finalità sottese alla loro produzione. Ci siamo preoccupate di ricostruire il contesto storico e/o ideologico che ha informato lo spirito del gioco e di commentare i fogli con fonti e materiale iconografico a essi contemporanei. Se accanto agli esemplari italiani molti sono quelli francesi (per i quali ci è stata guida preziosa l’opera di Henry René D’Allemagne), ciò è spiegabile sia per la presenza di centri di imagiers particolarmente attivi e qualificati, sia per una diffusa tradizione di collezionismo, più attento nei confronti della stampa popolare. La nostra ricerca si arresta alla prima metà del ‘900: vogliamo lasciare al lettore il difficile compito di interpretare i valori dei giochi che appartengono alla “cronaca”, se questo libro saprà suscitarne l’interesse.
Silvia Mascheroni&Bianca Tinti

Il Gioco dell'oca
... bel giuoco dove son dipinti
Misteri per cui l’uomo al ben si sveglia.

Guardate come da due dadi spinti,
Passano i giocator secondo i punti,
Ponti, pozzi, prigioni e labirinti;
E quando ad ogni ben si credon giunti,
Dan nella morte ohimé che via lor porta
Ogni speranza nel restar defunti.
G.B. Fagiuoli, La Fagiuolaia o
Rime facete, Firenze, 1734

Loca, occha, ocha, occa, oca, viene scritto con diverse grafie che rispecchiano sia la traduzione fonetica legata alla popolarità del gioco e alle sue caratteristiche regionali, sia l’evoluzione linguistica del termine attraverso i secoli. Sessantatré case disposte a spirale, due dadi a guida del cammino, insidie e incontri fortunati distribuiti con ritmo regolare. Così semplice, il gioco dell’Oca nasconde più di un mistero, ma i nostri lettori abbiano pazienza se prima ci sembra doveroso rendere omaggio alla pennuta protagonista.

“Apologia” dell’Oca
Allevata con amore dalla bella Elena nei cortili reali di Sparta, dalla paziente Penelope durante la lunga attesa di Odisseo, cibo offerto agli dei da Filemone e Bauci come racconta Ovidio, l’oca, così dolce e familiare, era presso gli antichi allegra compagna di giochi di infanzia, attenta guardiana della casa, ricca riserva di carne, grasso e piume, doni tanto importanti in cambio di pretese davvero modeste. Apprezzata dai saggi perché, con le parole di Plinio “...potest et sapientia videri intellectus anseribus esse” (De natura animal., Lib. X, Cap. XII), condotta a sepoltura con solenni funerali dal filosofo greco Lacide a ricordo della loro affettuosa amicizia, divenne più tardi simbolo di incorruttibile vigilanza salvando il Campidoglio durante il ben noto assalto, tanto che Vegezio (De re militari, Lib. IV, Cap. XXVI) la consiglia quale miglior sentinella in caso di assedio. Nobile animale dunque e rispettato per le sue doti “morali”, non poté tuttavia sottrarsi all’ineluttabile legge del bisogno: il grasso era impiegato come topico nervale e come cosmetico, il fegato era ed è ghiotto ingrediente dell’arte culinaria. Per queste ed altre ragioni, forse, piacque agli egizi eleggerla ministro della dea Iside, il suo lento e cauto volo servì da paragone al primo grado dell’ascesi buddista, divenne simbolico attributo della ninfa Ercina, poi anche di santi cristiani come Ambrogio e Martino. La simpatia universale per l’oca trova conferma nelle leggende di tutti i paesi, da quelle indiane a quelle nordiche. I franchi, in epoca merovingia, le attribuirono il merito di aver insegnato l’arte di forgiare il ferro, gli scandinavi ne conservano la tradizione dalle mitiche saghe sino al notissimo romanzo "Viaggio miracoloso del piccolo Nils Holgersson" di Selma Lagerlof.


Perché si dice gioco dell’Oca
Ma se le argomentazioni sin qui addotte giustificano ampiamente il valore benefico dell’oca nel gioco, qualche fenomeno di costume, qualche “fatto” storico, deve aver suggerito all'immaginazione collettiva di battezzarlo con il suo nome. Non possiamo far altro che proporvi alcuni indizi. Nella tavola più antica del 1640 stampata a Venezia, il centro ritrae una scena di banchetto familiare dove, seppur ridotta per esigenze grafiche a modeste dimensioni, l’oca compare come “piatto forte” e sullo sfondo si vede un quadro con scene di caccia. Ancora, in un esemplare del XVII secolo dame e cavalieri giocano, l’atmosfera autunnale è sottolineata dal cacciatore in agguato, riprodotto in angolo. È evidente che tra il nostro gioco, le riunioni conviviali, l’autunno e quindi la stagione venatoria, esiste uno stretto legame almeno nelle prime illustrazioni. Se non bastasse, nel Calendario Costantiniano, il mese di novembre è indicato allegoricamente da un’oca. Si sa, le occasioni per mangiare bene e in abbondanza erano rare, spesso coincidenti con feste canoniche o determinate dai cicli stagionali, l’oca poi è cibo prelibato e sostanzioso, ma dell’esistenza di una tradizione antica che intreccia questi elementi in un’affascinante coincidenza, forse pochi sanno. Fin dal 1700 era d’uso in Francia festeggiare l’avvento dell’inverno, l’undici novembre giorno di San Martino, mangiando un’oca. Con il nome di “Marginalia” circolavano già nel XVII secolo presso corporazioni e confraternite, monete d’argento recanti su una delle facce l’immagine del nostro palmipede consacrato al vescovo di Tours. Gli studiosi sostengono che venissero distribuite come gettoni di presenza ai fedeli durante gli uffici religiosi che di solito precedevano i banchetti e i trattenimenti popolari delle grandi celebrazioni. Quando vennero coniate per la prima volta non si sa e certo la struttura del gioco, come vedremo, è tanto antica da precederne l’invenzione; nessun documento ci autorizza a far risalire proprio all’oca dei gettoni di San Martino l’origine iconografica e il nome, ma perché escluderlo?Fatte avanzare quali pedoni lungo un percorso di gara collettiva, semplice e divertente come "L’albero della cuccagna" o "La pentolaccia", poste in premio alla meta, le monete dall’accattivante soggetto potrebbero essersi più tardi “fissate” sui fogli stampati, designando così il pubblico trattenimento. Con l’andar del tempo, sulle tavole, i richiami al Natale o al Carnevale sostituiscono il ricordo delle feste d’autunno, ma ne conservano intatto lo spirito di gaio incontro sociale, di serena contesa familiare. Più realista, la nostra fonte guida H.R. D’Allemagne, suppone che l'appellativo derivi dall’usanza dei giocatori di impiegare la vincita nell’acquisto di una bella oca grassa da fare allo spiedo. Comunque sia, l’una ipotesi non esclude l’altra e altre ancora. I bambini di ogni parte del mondo, da tempo immemorabile si divertono a tracciare con il gesso sui marciapiedi o con un bastoncino su terra battuta un diagramma geometrico dall’andamento lineare o circolare, suddiviso in spazi numerati nei quali far avanzare una rudimentale pedina. Le regole prevedono, pur con varianti locali, che i partecipanti spingano il proprio “pezzo” dando numerose prove di destrezza: saltare su di un piede, anche a occhi chiusi, incrociare il passo e così via. Elemento costante di questi circuiti è la suddivisione in “case” positive o negative e il divieto di calpestare le linee di demarcazione. La struttura grafica, la presenza del bene e del male, il procedere per mezzo di un contrassegno rendono il gioco, comunemente noto come Marelle, Mondo o Campana, vicino per molti aspetti a quello dell’Oca, tanto da far ritenere che quest’ultimo ne sia una tardiva trasposizione da tavola. Se così fosse, l’andatura dell’oca, simile a quella incerta e traballante assunta nello spinger la pedina con un solo piede, potrebbe aver suggerito il nome stesso del nostro.

Alla ricerca dei significati nascosti
Questa coincidenza è comunque di secondaria importanza rispetto alla profonda relazione strutturale e semantica che lega i due giochi. Antichissime marelles sono menzionate nei testi cinesi fin dal 1357 avanti Cristo, si trovano dipinte sulle pareti degli ipogei egiziani; citate da Platone con il nome di kubeia, furono introdotte dai soldati romani in Gallia e giocate da sumeri, precolombiani, persiani e indù. Anche Rabelais ne inserisce una variante, il franc-carreau, nell’elenco dei divertimenti di Gargantua. “È probabile,” dice Caillois, “che il significato dell’itinerario cambi in relazione alle credenze di coloro che lo percorrono... ma la molteplicità delle attribuzioni non intacca mai il rigore di questa struttura pura che simbolizza il raggiungimento della meta. Circolare o rettangolare, che evochi il labirinto, il tempio o il pellegrinaggio a Gerusalemme non ha importanza: il giocatore deve progredire, evitare l’inferno, guadagnare diversi meriti, raggiungere il paradiso, la pedina spinta dal concorrente rappresenta l’anima. La marelle è iniziatica perché rivela l’individuo a se stesso, sviluppando alcune delle sue capacità.” Nel gioco dell’Oca non si misurano abilità fisiche o intellettuali, è la sorte, rappresentata dai dadi, a comandarne l’andamento, ma il valore iniziatico di cui parla il Caillois sopravvive nei significati simbolici che gli elementi costitutivi della sua fisionomia nascondono. Lo spazio ludico è organizzato secondo una spirale, figura universale dell’eternità, qui rappresentazione compiuta alla sessantatreesima casa della vita, lungo la quale l’uomo-giocatore procede faticosamente per giungere alla morte fisica e, contemporaneamente, alla salvezza dell’anima. Il percorso, terreno e spirituale, è scandito in nove sequenze, tante quante sono, secondo credenze diffuse sin dal medioevo, le metamorfosi umane che dall’infanzia alla vecchiaia avverrebbero ogni sette anni; il sessantatreesimo, chiamato “grande climaterio”, concluderebbe dunque il ciclo vitale. Sette sono anche i pericoli distribuiti lungo il percorso, altrettante le oche, benefiche dispensatrici di punti. Un tema celebre dell’imagerie populaire è proprio il ciclo della vita e le diverse età dell’uomo. La curva dell’esistenza suddivisa in quattro o sette periodi si ritrova già nell’antichità classica con allusione alle quattro stagioni o ai sette pianeti. In una silografia della Biblioteca di Berlino databile intorno al 1470 è rappresentata la ruota della fortuna e il ciclo dell’esistenza attraverso sette personaggi che ne indicano le fasi. Tra il XVI° e il XVII° secolo il soggetto si stabilizza nella forma assai più nota dei gradini dell’età o scala della vita. Famosissime e considerate prototipo per le successive figurazioni edite più tardi per tre secoli sono le stampe di Christophano Bertelli che nel 1500 esercitò la sua arte a Modena. Nove figure maschili sono poste ai diversi livelli e sotto ciascuna vi è un animale che, presumibilmente, simbolizza un’età. Nella versione femminile, in corrispondenza dell’ultimo gradino si trova un’oca. La presenza del sette e del nove, delle scale (come quelle che costituiscono spesso “l'ingresso” del percorso), della ruota e quindi della circolarità ricordano elementi del nostro gioco. La presenza del nove e del sette, cifre cabalistiche cariche di superstizione e valenze esoteriche, il cui prodotto corrisponde proprio alla meta da conquistare, sembra costituire il tessuto magico simbolico del gioco. C’è chi ha interpretato in chiave allegorica regole, accidenti e persino i numeri delle case ove questi compaiono. “Al numero 31: il Pozzo. Indica l’errore grave (3+1 =4, cifra materiale) ritardando l’avanzamento spirituale fino a che un altro viene a liberarvi (la redenzione)... Al numero 42: il Labirinto. Iniziazione. Scelta del cammino. Composto di 6 X 7 è il numero del giudizio, di Osiride e dei giudici della vita. Al numero 58: la Morte (5 + 8 = 13, il rinnovamento). Non è la morte fisica, che è una liberazione ma quella dell’anima” (J. Duchaussay, "Le bestiaire divin, ou la symbolique des animaux", Paris, 1958). Ma non è che una delle tante letture possibili. L’iconografia cristiana, ad esempio, rimanda a molteplici significati per alcuni dei nostri simboli, non sempre di univoca spiegazione; quel che sembra rimanere costante è il valore di prova da affrontare per raggiungere uno stato superiore di grazia. Più semplicemente, se il gioco è anche rappresentazione della vita, i pericoli sono segnali delle difficoltà che ogni uomo inevitabilmente incontra. La logica delle regole sembra dettata dall’esigenza di equilibrare le chances dei partecipanti. Non è ammessa una vittoria senza ostacoli, un atteggiamento che privilegi l’aspetto pecuniario della vincita. L’uscita del 9 (nelle combinazioni numeriche di 5 e 4 o 6 e 3) bloccherebbe infatti la partita al primo giro: raddoppiando i punti di oca in oca, il 63 sarebbe subito raggiunto e la posta intascata. E’ difficile stabilire una gerarchia “morale” delle punizioni. Così il ponte pur agevolando il cammino, contempla un pedaggio da pagare, come legge e costume imponevano. Il tempo perduto (col denaro) all’Osteria è il tempo di un giro nel gioco, mentre più dura è la sorte di chi cade nel pozzo poiché rischia di restarvi a lungo, scontando una pena pari alla Galera. Nel Labirinto ci si può perdere, ma è possibile ritornare sui propri passi con lieve danno; una variante della regola vuole che vi si resti prigionieri in attesa dell’intervento provvidenziale di un altro sfortunato. Venir “truccato” ovvero raggiunto, è un rischio continuo: nel grande messaggio edificante del gioco, un richiamo al cinico individualismo dell’umana società.

I pericoli
Il ponte da attraversare è un tema che si ritrova anche nei giochi infantili dove rivivono leggende e credenze religiose: così gli antichi teutoni pensavano che l’anima dovesse passare su un ponte nel viaggio verso gli Inferi e secondo la mitologia scandinava gli dei ne avevano costruito uno,forse l’arcobaleno, per comunicare dalla terra al cielo; in Inghilterra il tiro alla fune sopra un ponte indica la lotta tra i poteri, del bene e del male per il possesso dell’anima. L’osteria è chiaramente un monito a chi è tentato di soccombere alle seduzioni dei piaceri mondani: “...quante persone hanno la cattiva abitudine di sperperare il loro denaro e il loro tempo, le loro serate soprattutto, a discapito delle dolcezze del focolare domestico! E perché? Per non aver compreso nell’infanzia il senso profondamente morale del numero 19", esclama Monsieur Bataillard, che nel 1863 teneva una dotta e appassionata conferenza in difesa dell’Oca. Come la morte, la prigione è un pericolo che non ha bisogno di interpretazioni sebbene sia curioso che, soprattutto nelle tavole più antiche, venga spesso sostituita da un’arca. Forse una prigione galleggiante, una “galera” di trista memoria? Più suggestivo invece il labirinto che non solo compare alla quarantaduesima casella, ma la cui struttura sembra informare l’intera immagine grafica del gioco. È un modello simbolico tramandato attraverso i millenni: spazio esoterico, “riempito”, come la marelle, a seconda delle culture e del momento storico, con le più varie metafore. È probabile che in veste di pericolo si ispiri all’idea tradizionale di luogo insidioso, dove ci si perde, dove si resta prigionieri, mentre nella valenza di via catartica tesa al raggiungimento di una meta spirituale, ricordi i labirinti delle pavimentazioni nelle cattedrali medievali, chiamati chemin de Jérusalem, che i fedeli percorrevano in ginocchio spesso in sostituzione di un pellegrinaggio in Terra Santa. Prima di comparire nel nostro, lo si ritrova come Jeu du Dédale nel XV secolo e Giuoco del Labirinto nel libro di Ringhieri del 1580 dove dame e cavalieri, tenendosi per mano, intrecciano meandri figurati.

Il Gioco fra Storia e Leggenda
Di un gioco che riassume in modo così semplice e completo tanti archetipi del pensiero fantastico e dell’attività simbolica umana, è impossibile stabilire con precisione luogo e data di nascita; persino i compilatori di “studia ludorum” del XVII secolo, che lo menzionano per la prima volta, dovettero ricorrere alla leggenda per spiegarne l’origine. Sarebbero stati i soldati greci attraverso l’inesauribile creatività di Palamede, tradizionalmente il padre di tutti i giochi, a inventarlo durante l’assedio di Troia “per ingannare il tempo”. Forse a suggerire l’ipotesi è la forma circolare che ricorda la struttura delle mura. Documenti antichissimi, il “Gioco del Serpente” rinvenuto in alcune tombe egiziane e quello cinese del “Mandarino” o “delle Promozioni”, ne ripropongono il percorso a spirale e la suddivisione in case. Ufficialmente l’Oca sembra essere entrata nella storia all’epoca dei Medici per opera di Francesco I che ne avrebbe fatto gentile omaggio a Filippo Il “verso” il 1580, almeno secondo le confuse informazioni di alcuni esperti i quali, peraltro, non citano la fonte originale. Quel che possiamo documentarvi è la sua iscrizione, il 16 giugno 1597, nello Stationer’s Hall di Londra come “il nuovo e molto dilettevole giuoco dell’Oca”. Con lo stesso nome lo ritroviamo più tardi nel catalogo di immagini profane del 1614 di Michel Angelo Vaccari e infine ne La Maison académique compilata da De La Marinière quarant’anni dopo. Vero, nuovo, piacevole, dilettevole, nobile, rénouvelé des Grecs, il gioco dell’Oca nel XVII secolo ha ormai conquistato anche la migliore aristocrazia: Héroard, medico del futuro Luigi XIII, racconta che “tra i suoi giochi rumorosi, il bambino reale ama riposarsi giocando all’Oca” e Saint-Simon, a proposito dell’inconsolabile dolore della Delfina per la morte del primogenito del Re, nel 1711, riferisce: “chiusa nei suoi appartamenti cercava consolazione nel giuoco dell’Oca.” Citato da Molière ne L’Avaro, giocato da Rousseau, ha ispirato a Mozart un’opera buffa dal labirintico intreccio, "L’Oca del Cairo"; Charles Perrault nel 1696 scrive I racconti di Mamma l’Oca, raccolta di fiabe famose che sembrano nascondere un significato iniziatico. La tavola più antica che conosciamo è quella stampata a Venezia “apresso Carlo Coriolani” nel 1640. E, sebbene sia lecito pensare che ne esistessero di precedenti, non è possibile far risalire la comparsa del gioco nell’aspetto grafico “classico” a prima del XVI secolo, in quanto silografie riproducenti immagini profane si affermano solo in quest’epoca.


Quattro secoli di successo
“...dona una lezione agli ambiziosi, mostrando che chi va troppo lontano, si può trovar costretto a ritornare su suoi passi, diviene infine occasione di mille insegnamenti familiari.” ("Le Magasin Pittoresque", Tomo XII I, 1845). Un modello di gioco così semplice permetteva la partecipazione di persone di ogni età e di ogni ceto sociale, non richiedendo particolare impegno mentale e preparazione culturale. Il caso decide e la combinazione numerica stabilita di volta in volta dai dadi è immediatamente percepibile. Così, popolani, borghesi e nobili erano tutti potenziali giocatori. Come abbiamo visto, i contenuti del gioco ne garantivano la moralità, specialmente nei confronti del potere civile e religioso che nei secoli XVII e XVIII, in Europa, controllavano severamente ogni tipo di passatempo comportante l’uso dei dadi e in particolare quelli d’azzardo. Il divertimento era garantito dal carattere competitivo, dalla serie di emozioni a sorpresa, di speranze nutrite e disilluse. Gioco del focolare per eccellenza, si prestava tuttavia a soddisfare il vizio degli incalliti scommettitori: si potevano puntare grosse somme e l’Oca, a dispetto delle disposizioni di legge, diventava un vero e proprio gioco d’azzardo. Anche ragioni economiche contribuirono a un successo tanto popolare, infatti la tavola era assai meno costosa e usurabile delle carte, incollata su tela e ripiegata in astucci di cartone o cuoio poteva essere facilmente trasportata. A differenza di altri giochi altrettanto famosi, il gioco dell’Oca non ha legato la sua fortuna né all’iniziale novità, né a una moda passeggera perché il modello originario si rivela, con l’andar del tempo, estremamente duttile, in grado di trasformarsi e di arricchirsi con varianti finalizzate, di volta in volta, alla trasmissione di valori e conoscenze relative ai campi più diversi. Dal XVIII secolo, la didattica, l’educazione morale e religiosa, la celebrazione di imprese, la storia e la vita dei personaggi famosi, la divulgazione di scoperte e novità sono i soggetti che occupano gli spazi visivi del gioco fino a eliminarne quasi completamente la primitiva funzione ludica, modificandone anche la struttura, i meccanismi e la possibilità di partecipazione. Al puro passatempo si sostituisce così l’ “imparare divertendosi”, il percorso viene adattato alle esigenze del tema e infine, accanto a un pubblico indistinto, si incominciano a definire “destinatari” privilegiati per grado di istruzione e interesse culturale. Non sorprende quindi che il gioco dell’Oca finisca per diventare strumento di propaganda politica e pubblicitaria. Del resto, anche gli editori, per evidenti ragioni commerciali, arricchivano il mercato con sempre nuovi e accattivanti soggetti.


Varianti simboliche
Pur nella eterogeneità dei contenuti, i valori positivi e negativi, gli accidenti del percorso, sopravvivono nei secoli, mantenendo sempre vivo il messaggio prevalentemente educativo del modello originario: si trasformano spesso solamente nell’aspetto formale, adeguato di volta in volta al tema trattato, così come il numero delle caselle e i meccanismi stessi del gioco. Per esempio l’Oca, protagonista benefica, viene rimpiazzata da apostoli, angiolotti, bandiere vittoriose, monogrammi celebrativi e stazioni della Via Crucis. Al posto dei pericoli classici si trovano battaglie perdute, soldati feriti, l’uccisione di Abele, deragliamenti e scontri. Le sessantatré caselle diminuiscono e aumentano a seconda che si tratti di celebrare l’Unità d’Italia o di illustrare il giro del mondo, in 80 immagini, naturalmente. Anche il “giardino dell'Oca” scompare, rimpiazzato da mete più edificanti, come la nascita del Messia e l’apoteosi di Napoleone. La prova più evidente di come si mantenga il significato valoristico dei simboli al di là della forma è la figura del labirinto. Nelle tavole più antiche si tratta di un dedalo, si trasforma poi in un giardino all’italiana costruito con viali dal complicato intreccio e infine diventa un indistinto “spazio verde”: nell’immagine è scomparso ogni riferimento a un pericolo, che resta però ben confermato dalla regola.

Il gioco e la stampa popolare
Per quanto riguarda l’aspetto tecnico-artistico, i fogli del gioco appartengono alla vastissima produzione della stampa popolare. Come si è già detto queste immagini a carattere profano si diffondono nel XVI secolo, anche se già alla fine del Trecento si stampavano carte da gioco a tiratura limitata da matrici lignee preziosamente intagliate. L’inserimento di un testo e la dimensione delle tavole richiedevano infatti una “disinvoltura” nell’uso della tecnica che solo dopo l’invenzione di Gutenberg si era potuta raggiungere. Anche l’aspetto grafico e i procedimenti impiegati rispecchiano il cammino evolutivo della stampa in generale: dai giochi più antichi in silografia del XVII secolo, alle incisioni su metallo (tecnica già conosciuta nel Cinquecento) del XVIII, per finire con la litografia dal XIX secolo in poi. Accanto ai primi esemplari in bianco e nero troviamo quelli a colori, ottenuti sia utilizzando più matrici, sia dipingendo successivamente a mano sulla carta, a volte usando sagome di cartone. Il processo produttivo comportava spesso l'intervento di più artigiani: la realizzazione del disegno era affidata al litografo o all’incisore, mentre era compito del tipografo imprimere il testo. Non solo. Se le tavole, giocate e rigiocate, prive per l’utenza di valore artistico, venivano distrutte, non così le matrici che vediamo ristampate a distanza anche di secoli con didascalie cambiate. Gli elementi iconografici di contorno al gioco rispecchiano soggetti cari alla tematica popolare: pianeti, cicli stagionali, maschere come motivo simbolico delle feste più importanti, proverbi figurati e rappresentazioni della fortuna, accanto a una ricca varietà di elementi ornamentali che compaiono negli angoli, delimitano le “case”, incorniciano la spirale. E probabile che inizialmente fiere e sagre fossero i migliori punti di distribuzione quando i fogli, appesi alle cassette dei venditori ambulanti, si mescolavano alle immagini devozionali, agli almanacchi e ai calendari. In seguito, con il consolidarsi dell’attività degli stampatori, si aprono le prime vere e proprie botteghe di tipografi-editori: per la produzione francese i più famosi sono i Basset, i Jean, i Crepy. Le loro “vetrine” si affacciavano su Rue Saint Jacques, la strada della stampa parigina per eccellenza, come lo era a Milano la ben nota contrada Santa Margherita. Ma centri di imagiers erano distribuiti su tutto il territorio nazionale; ne ricordiamo alcuni come Bassano, reso famoso dai Remondini, Modena con la dinastia dei Soliani, Venezia, Bergamo e Pesaro. Particolarmente apprezzate erano le stampe fiamminghe anche se circolavano fogli editi nelle più importanti città europee. Dal XIX secolo, Epinal si impone come il più eclettico nucleo produttivo, dando origine a una tipologia caratteristica nel campo della imagerie populaire. Molti dei nostri esemplari non riportano le firme degli incisori, i nomi degli stampatori, luogo e data di edizione e quando compaiono si tratta spesso di tavole particolarmente preziose o destinate a un pubblico di élite. L’anonimato consentiva all’artigiano di scambiare legni e rami con matrici di altra provenienza, arricchendo in tal modo il proprio campionario e in alcuni casi il soggetto da illustrare consigliava prudenza nel non apporre la firma, per motivi di censura.

 

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