Giochi dell'Oca e di percorso
(by Luigi Ciompi & Adrian Seville) |
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"Tempi moderni: invenzioni, svaghi e pubblicità" |
Autore: Mascheroni&Tinti |
![]() La ferrovia “È vero che le carrozze di prima classe camminano più in fretta dei vagoni ordinari e sono anche più care?” chiede dubbioso il distinto signore in redingote e tuba all’ufficio informazioni: non sarà troppo rischioso viaggiare in ferrovia con la famiglia? Ma la tentazione è forte, l’avventura ha inizio. Siamo nel 1880: le chemin de fer affascina tutti i francesi, anche i più scettici, le sei Grandi Compagnie di strade ferrate moltiplicano senza sosta binari e scambi; in questi anni infine nasce la celebre linea dei Wagon-Lits e l’insuperabile Orient-Express. Sopra i ponti, scomparendo nei tunnel, dentro il cuore delle montagne, la locomotiva sbuffante viaggia lungo le 63 caselle del gioco seguita dai vagoni colorati che trasportano tutto e tutti: persone, bagagli, lettere importanti, vino e animali! Ci sono carrozze di prima, seconda e terza classe, queste ultime ancora molto poco confortevoli con banchi di legno e senza le bottiglie d’acqua calda per riscaldarsi. I fili del telegrafo, le parallele delle rotaie, la geometria dello steccato fiorito “trasportano” il treno da una stazione all’altra che ricorda il segno positivo dell’Oca facendo raddoppiare i punti. Ma il viaggio, come quello del gioco, è lungo, con obblighi e imprevisti: bisogna pagare il biglietto, fermarsi o rallentare ai segnali convenuti diligentemente sbandierati dai sorveglianti, entrare nel fumoso buffet, presentarsi all’ufficio del commissario e tornare indietro di dodici caselle sulla piattaforma girevole perché lo scambio non ha funzionato a dovere nel “Labirinto” delle direzioni. Il treno può ancora deragliare in prossimità di Strasburgo, città di frontiera, troppo vicina alla temuta Germania, quasi a voler significare che se il “cammino di ferro” supera le distanze sulla carta geografica e la locomotiva sembra promettere progresso e pace, può anche “sputare” (come fatalmente accadrà) truppe di soldati, artiglieria pesante, diventando così pericolosa macchina di guerra. Infine, subito dopo una curva, il treno si deve fermare davanti al pericolo più grave del gioco, la morte, rappresentata dal cavallo, il vecchio “vapore” investito dal convoglio. Come si vede, lo stampatore non ha voluto illustrare un realistico incidente ferroviario, per rassicurare il pubblico e anche perché forse era ancor troppo vivo il ricordo di un impressionante disastro quando nel tunnel di Meudon morirono nei vagoni in fiamme settantré viaggiatori. Dopo aver toccato Nancy, Bordeaux, Marsiglia, l’eroica “Giovanna d’Arco”, famosa locomotiva dell’epoca, entra trionfante nella stazione della capitale. L’avventura è finita e il nostro viaggiatore prenderà per tornare a casa la vecchia diligenza, ridotta ormai a carrozza-taxi. Il tramway Morettina dove vai? Vado a Monza sul tramway... Su e già per i rutai che a Monza el riva mai. Tre ore e mezzo aveva impiegato per percorrere tredici chilometri il veicolo che la mattina dell’8 luglio 1876 era partito dal deposito della Società Anonima degli Omnibus, a Porta Venezia, con a bordo il Principe Umberto e le autorità cittadine. Il viaggio non era stato senza incidenti: cavalli imbizzarriti sotto il ponte della ferrovia, un deragliamento nei pressi della meta a causa della recente pioggia... Ma il successo dell’impresa aveva convinto tutti: dalla folla che la domenica si accalcava nel conquistare un posto sull’enorme vagone a due piani per provare l’ebbrezza della novità, al liquorista Giuseppe Galimberti che ne approfitta per attirare clienti lanciando il Tramway, modernissimo corroborante! Cinque anni dopo, la Grande Esposizione Industriale consentirà ai binari di penetrare nel cuore della città: il giorno della inaugurazione le vetture scorrono per la prima volta sulle rotaie che conducono da piazza del Duomo ai giardini pubblici dove nelle Gallerie del Lavoro, delle Carrozze, delle Grandi Macchine e della Meccanica, sono esposti i frutti della più moderna tecnologia nazionale. Lungo i bastioni illuminati a gas che nella tavola sostituiscono il simbolico ponte, il traffico è intenso e può capitare che i viaggiatori provenienti da contrarie direzioni si scontrino, debbano attendere allo scambio il proprio turno per proseguire, siano costretti a scendere tutti allo stesso modo dell’augusto sovrano, intrepido collaudatore dell’ippovia, perché i vagoni sono usciti dalle guide. Composti ed eleganti, gibus, redingote e malacca, i passeggeri milanesi mostrano agli occhi dei visitatori stranieri l’immagine di una città florida, dinamica ed efficiente, ormai abituata a considerare con britannico distacco qualunque novità e in pochi anni Milano avrà una circonvallazione tramviaria completa, undici linee radiali dal centro alla già lontana periferia. Tutto cambia con rapidità fulminea: l’elettricità sta conquistando il mondo e la Società Edison, dopo aver soffiato l’appalto dell’illuminazione cittadina alla Union del Gaz, nel 1895 stipula con il Comune la convenzione per l’esercizio dei tram a trazione elettrica. La vettura a cavalli compie il suo ultimo giro nel dicembre del 1901 mentre per le vie scivolano incontrastate le nuove motrici e in un gioco omonimo contemporaneo a “trainare” velocemente i partecipanti non sono più i mansueti musi equini, ma i guizzanti lampi della rivoluzionaria energia! Bisogna arrivare al 1930 perché, fra i tanti, continui perfezionamenti tecnici, uno si imponga a entusiasmare l’opinione pubblica: le ruote, montate su carrelli, consentono manovre più agevoli e vetture più capienti. La baraonda aumenta, “avanti c’è posto!” e tutti spingono, si affrettano, dal nonno alla grassa signora, dalla coppia elegante alla... giraffa. Ormai il tram è un simbolo della metropoli convulsa e il gioco uno specchio caricaturale della frenetica attività di ogni giorno. In quello stesso anno, a suggellare la fine di un’epoca, le carrozze del tipo Edison a ruote fisse, trainate a San Siro, vengono bruciate in un grande unico rogo. Alle corse Le corse di cavalli non sono certamente una novità quando questo gioco, una delle tante prove di trasformismo della nostra Oca, si stampa e si diffonde (con il nome più comune di steeple chase) in veste raffinata o “di buon comando” nella Parigi del 1860. L’origine delle competizioni ippiche è antichissima, ben lo sappiamo, e le gare hanno appassionato; pur con alterni momenti di popolarità, il pubblico d’ogni nazione, senza distinzione di ceto. La seconda metà del XIX secolo coincide appunto con una delle fasi storiche di maggior favore. Infatti, mentre l’infaticabile e familiare compagno di lavoro va lentamente scomparendo, sostituito dai nuovi mezzi di trazione, il nobile animale di razza, il purosangue da corsa, il mezzosangue da caccia diventa il beniamino delle folle cittadine e, contemporaneamente, l’orgoglio degli allevamenti sovvenzionati e gestiti dallo Stato. Attorno alla gara, occasione di selezione genetica dunque, oltre che di svago, si costruisce un ambiente particolare, di per sé divertente e interessante. L’ippodromo dalle piste curate, con le tribune coperte, immerso nel verde, è un luogo d’appuntamento interclassista, passerella di mondanità, pretesto per una boccata d’aria e fonte di più o meno equivoche emozioni per gli scommettitori. Il tipo di pubblico rappresentato ai bordi del percorso di gioco è verosimilmente quello stesso che una domenica d’aprile del 1857 assisteva all’inaugurazione di Longchamps al Bois de Boulogne. Ci sono le dame vestite alla moda dell’imperatrice Eugenia e le rappresentanti della piccola borghesia cinte di grembiuloni, più semplici ma dignitose al fianco di commercianti o militari di carriera, grassi capitalisti e dandies, eleganti avventurieri che sembrano usciti dalle pagine di Maupassant. Molti i bambini, dai neonati ai più grandicelli. Sono anni in cui la protezione dell’industria nazionale e la lotta per l’affermazione sul mercato europeo impongono una vivace e scoperta polemica xenofoba nei confronti del costume e della lingua, ma l’Inghilterra, implacabile, resta il modello dominante nello sport e nell’ippica in particolare. Si monta all’inglese, su sella di cuoio inglese, indossando ridingcoats (poi redingotes), i fantini si chiamano jockey e la gara che più fa furore è lo steeple chase, una forma particolare di corsa a ostacoli... d’origine irlandese, naturalmente. Durante una caccia alla volpe questi intrepidi cavalieri anglosassoni avevano infatti, per la prima volta, scommesso su chi avesse raggiunto, davanti a tutti, il campanile (steeple), unico e lontano punto di riferimento all’orizzonte; così, attraverso la campagna si slanciarono sfrenati, superando forre, siepi, muri, palizzate e fossati... Regolamentata, ma sempre irta di pericoli e di colpi di scena, troviamo la gara descritta con tutti i suoi accidenti da un cronista milanese all’indomani dell’inaugurazione dell’ippodromo di San Siro, nel maggio del 1889, e illustrata per l’occasione ne “Il giuoco delle grandi corse”...Siamo al momento del salto di un ostacolo. I cavalli opportunamente avvertiti dal fantino spiccano il salto di un muricciolo. Guai al fantino che non abbia ben calcolato la distanza o abbia troppo presto chiamato il suo cavallo al salto... È un momento pieno di ansietà, di commozione, di palpiti talora! Da un minuto secondo un uomo sano, vigoroso, forte, pieno d’ardore e di vitalità può giacere al suolo, con un braccio o una spalla slogata, colla testa rotta e sanguinolenta, un generoso animale pieno di fuoco, di vigoria, vanto e speranza di una scuderia, di un proprietario può essere in terra con le gambe spezzate (broken down), col petto ansante, coll’occhio spaurito e addolorato. Ond’è che quando l’ostacolo è oltrepassato e cavallo e cavaliere riprendono svelti, leggeri la corsa, da ogni petto esce un respiro di soddisfazione. Per questa volta è andata bene, ma gli ostacoli sono parecchi...” La stagione delle corse si identifica ormai alla fine del secolo con la stagione d’oro della città, con la gran kermesse di ogni capitale europea e lo steeple chase figura in ogni programma di prestigio. È una passione internazionale, come testimoniano le regole tradotte in tre lingue attorno alla pista circolare di un’altra tavola dove, bando alla moralità, è persino consentito ai non partecipanti di rovinarsi oppure vincere puntando su cavalli e fantini. Ancora un segno, nella mimesi del gioco, di quel grande spettacolo che sono gli spettatori stessi ad offrire: “...È già una bella soddisfazione,” si legge sul numero speciale della Illustrazione Italiana 1889, “rimanere per mezza giornata all’aria libera e aperta, sia pure l’aria degli orti di fuori Porta Sempione. Poi la sfilata delle carrozze che arrivano e lasciano a fianco della tribuna una folla elegante di signore vestite con gusto: la stessa folla che si schiera in più file sulla tribuna, immersa nella tiepida luminosità di una bella giornata di maggio; il continuo muoversi, agitarsi di tutti quei colori, di quei nastri, di quelle piume, di quei ventagli, non è di per sé una ricreazione della vista e dello spirito? Al di là della pista un’altra folla di pedoni e di carrozze... in fondo qualche baracca dove mangia e beve, non curando l’incerto domani, il buon popolo che si diverte senza tanti rispetti umani.” Course Michelin - Jeu d’oie Cycliste Non sappiamo se la tavola vuole ricordare la massacrante Parigi-Brest, una gara disumana di 1200 chilometri, vinta nel 1891 dal mitico Charles Terront “senza cambiar macchina”, ma sicuramente la Revue Encyclopédique, inserendo tra i suoi fogli questo gioco, sa come accattivarsi la simpatia dei lettori. Ormai il bicicletto affascina tutti, gli almanacchi dell’epoca gli dedicano numeri unici, ha una sua rivista specializzata, le associazioni velocipedistiche organizzano corse e riunioni per il gran numero di appassionati. Questo ardito cavallo a due ruote non è soltanto mezzo di trasporto, ma invito allo sport e veicolo di pubblicità. Proprio in questi anni Michelin inventa i pneumatici tubolari ad aria compressa e l’“omino di gomma” non si lascia sfuggire l’occasione di “sponsorizzare” questa Corsa dell’Oca ciclista. “Pantaloni sbuffanti, corti al ginocchio, calze lunghe a maglia grossa di lana, berretto all’inglese ben aderente con piccola visiera”, con questa impeccabile divisa, consigliata dal dottor Galante nel Manuale del Ciclista (1894), il nostro veloceman è pronto alla partenza, ma la foga e l’inesperienza gli sono fatali: cade subito al primo colpo di pedale. Lo vediamo arrancare su salite impervie, imbattersi in un gruppo di... oche starnazzanti, scontrarsi con un altro corridore, lanciarsi in una spericolata discesa senza freni, fortunosamente salvato - la fedele bici sempre al fianco - da un ramo sull’orlo di un burrone. Una gran fatica insomma per il nostro corridore che, inzuppato, con gomme a terra, sotto la luna, continua instancabilmente a pedalare e non può concedersi neppure quattro chiacchiere con una signora ciclista... È proibito bere limonate, il dottor Galante consiglia “...brodo concentrato tenuto in pere di gomma (a portata del corridore) magari con aggiunta di rosso d’uovo per renderlo più nutriente...” Attenzione poi a non abusare, fermandosi ai controlli, di “...thè, caffè, koka, cola, matè e simili che... devono essere usati con molta parsimonia: danno bensì una eccitazione momentanea, ma ad essa succede una dannosa prostrazione.” Ma se il nostro userà pneumatici Michelin, “Millepiedi chiodati”, quando piove e la bicicletta Décauville, oltre a raddoppiare i punti, non dovrà temere le intemperie e gli accidenti del terreno.Se poi avrà la fortuna di incontrare tandem, sulky che lo “tireranno” lungo il percorso, la vittoria sarà assicurata e potrà tagliare il traguardo acclamato da una folla festante, trattenuta a stento da un grosso e burbero gendarme.”Abbiamo pensato che fosse interessante fotografare più gambe di corridori al fine di ricercare se hanno dei punti di forza comune o qualche analogia nella loro struttura. Un semplice colpo d’occhio all’immagine riprodotta mostra che non ve n’è nessuna... D’altra parte questa panoramica in bianco e nero non riesce a dare un’idea delle tinte di queste gambe: esse sono tutte marmorizzate, violacee, a macchie, a volte sanguinolente, marchi onorevoli di allori raccolti in tutti i velodromi...” (Le Cyclisme, profession moderne, 1896). ...Al grido di “Gira! Gira!” una folla entusiasta accoglie all’Arena di Milano Costante Girardengo, vincitore della corsa nazionale, con ben cinquantuno minuti di vantaggio sul l’ ”eterno secondo”. Siamo nel 1919. La guerra aveva bruscamente interrotto le corse in bici e gran parte delle manifestazioni sportive che proprio nel primo decennio del Novecento avevano acquistato appassionati e tifosi. Cancellate all’improvviso allegria e spensieratezza, la necessità bellica si impossessa senza riguardi di tutte le novità del secolo, divenute simbolo di un modo di vivere. Se treni e auto trasportano truppe e generali, attraverso le linee del fronte ci si sposta spesso su due ruote e “...vola alla gloria come fosse in pista / il volontario velocipedista”. Molti soldati, corridori dilettanti, insieme a La Tradotta (giornale satirico della Terza Armata) tengono nel tascapane La Gazzetta dello Sport chiamata affettuosamente in gergo la “Rosea” che nel 1909, rubando qualcosa al Tour de France, aveva ideato e organizzato tra mille avventure il primo Giro d’Italia, in otto tappe con trentamila lire di premi. Il ciclismo cercava ancora affannosamente la sua strada e questa manifestazione con regolamenti, controlli, tappe e premi, dà a tutti un motivo in più per correre. Nel 1919 quindi la corsa non è solo un appuntamento sportivo, la si può considerare forse il primo vero Giro d’Italia: solo ora, infatti, Trento e Trieste, non più territori proibiti, sono tappe conquistate prima dai soldati e poi dal gruppo dei corridori. Questa edizione segna inoltre la nascita del ciclismo moderno, organizzato e sovvenzionato da costruttori di biciclette o di pneumatici e l’atleta porta sulla maglia nomi diventati poi leggendari come Bianchi, Legnano, Atala. Anche il “re” della crema per calzature Lion Noir sa che l’avvenimento attira un gran pubblico e fa réclame alla sua bottega milanese di via Trivulzio 38 stampando in proprio questo Giro d’Italia. Come si vede la tavola è semplice nelle regole e nel meccanismo dei pericoli “naturali” che capitano al ciclista: dallo scontro... con un paracarro a inevitabili forature, cadute e passaggi a livello. La veste grafica è essenziale: le città toccate dal Giro, tappe positive del gioco, sono ricordate con i loro monumenti da cartolina illustrata e la bandierina tricolore sventola con orgoglio su Trieste. Il Giro è molto faticoso e il corridore “cade, si ferisce e si ritira” più di una volta; il terreno è certamente poco agevole come ci ricorda uno sbiadito fotogramma de La Domenica delCorriere dove i “girini”, gomme in spalla, guadano un fiume perché il ponte è stato distrutto dai bombardamenti. Il corridore che al centro del gioco riceve una medaglia e tanti applausi sarà nella realtà Costante Girardengo, l’ “omino di Novi” che vince sette tappe su dieci... e pensare che tutti lo davano perdente a causa di una brutta “spagnola” che lo aveva indebolito. Astuto, veloce, grande passista ed egregio scalatore (come raccontano i biografi), dopo l’arrivo trionfale all’Arena di Milano, sarà per tutti il “campionissimo”. Les Jeux de la Phosphatine Falières Cartoline illustrate, in rilievo, sagomate, cataloghi a fisarmonica, francobolli, ritratti di personaggi celebri: all’inizio del secolo la Premiata Ditta Pubblicità incomincia a scoprire che ogni ritaglio e ogni immagine può essere usato come veicolo e mezzo di lancio. L’industria privata non si lascia sfuggire ovviamente l’occasione di reclamizzare i propri prodotti attraverso la spirale dell’Oca e anche la ditta Falières chiede al famoso disegnatore Benjamin Rabier di illustrare Les jeux de la Phosphatine per accattivarsi la simpatia dei suoi piccoli e avidi consumatori. Le “case” propongono deliziose immagini legate al mondo infantile: topini, conigli, tartarughe su cui le pedine camminano sperando di incontrare un’oca benefica, rappresentata naturalmente da una scatola di preziosa fosfatina: solo un assaggio però, prima di poterne consumare, con tanto di bavaglino, una bella tazza piena, vincendo il gioco. I pericoli ci sono ancora, ma Rabier li ha sapientemente trasformati, rendendoli meno minacciosi, nell’aspetto grafico, di quelli classici. L’auto in panne ricorda il pozzo, la tagliola che intrappola la prigione, il ponte è diventato un buffo pesce e, niente paura, la morte è solo una falce. Nouveau Jeu Bruiant des cris de Paris de ses faubourgs et environs ...Ma l’arte della pubblicità ha origini ben più lontane! Il venditore ambulante, insegna in carne ed ossa, è un personaggio antico e popolare che ha solo cambiato l’abito bizzarro, il suo vestito di scena, attraverso i secoli. Questa raffinata incisione del 1808 documenta, riunendoli in una sorta di campionario storico, i mestieri esercitati dopo la Rivoluzione francese da molti citoyens storditi dai radicali e improvvisi sconvolgimenti sociali. Incuriosire la folla, divertire giovani e vecchi, lanciando grida caratteristiche tra vicoli e piazze di Parigi, diventa un nuovo modo di sopravvivere e questa strana orchestra, come un carillon un po’ stonato, anima i quartieri della città. Artigiani, imbonitori e mercanti, continuando antiche tradizioni, soddisfano anche alcuni bisogni primari dei raggruppamenti urbani che dipendono da loro per l’approvvigionamento di acqua, latte, verdure fresche e carbone. Li vediamo nella tavola carichi sotto il peso delle loro mercanzie e le grida lanciate, così caratteristiche nel gergo popolare e tanto difficili da tradurre, sono esempi di primitiva eloquenza, cantilene facilmente riconoscibili dai parigini per la tipica modulazione divenuta ormai familiare. “Eccellente vino di Borgogna che arrossa la gola, otto soldi il litro!”, “dolci di Nanterre, dolci fini!”, “insalata selvaggia, mia bella capucine!”, “piangete piccoli miei, avrete girandole colorate!” Dalla venditrice di cappelli a quella di scope piumate, dal mercante di occhiali allo straccivendolo, ognuno ha qualcosa da reclamizzare. Una tavola dunque tutta da guardare per la particolarità dei personaggi, per tentare anche di stabilire corrispondenze con qualche mestiere sopravvissuto ancora oggi, per vedere se qualcosa è rimasto dell’istinto verbale di allora, forse nei vicoli e nei carrugi di qualche paesino nostrano. Ma lo stampatore non può dimenticare l’aspetto ludico della tavola con il suo meccanismo di punizioni, arresti e ricompense; il giocatore pagherà alcuni gettoni per i servizi resi: dal venditore di fornelli al carbonaio, dal fonditore di cucchiai di stagno al portatore d’acqua, raddoppierà invece sulle insegne più antiche e forse più famose come il mercante di uccelli o la pescivendola. |
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