Giochi dell'Oca e di percorso
(by Luigi Ciompi & Adrian Seville) |
Il Gioco dell'Oca |
Autore: Domini Donatino |
Il campionario dei giochi qui esposti non vuole certo percorrere le tracce culturali attraverso cui il gioco si è potuto storicamente realizzare come pratica sociale. Vuole piuttosto evocare il rituale che il gioco ha storicamente instaurato nelle diverse realtà culturali, adottando molte volte uno spazio figurale che continuamente stabilisce, sia pure visivamente, con chi gioca, una vera e propria fabulazione narrativa. Pertanto il percorso tematico-cronologico non poteva che incentrare, a mo’ di esempio, l’attenzione sulla fortuna che il gioco di tutti i giochi, il Gioco dell’Oca, riscuote, da quattro secoli, nell’immaginario collettivo di tutta Europa. Gioco d’azzardo per eccellenza, ma che gli adulti donano ai bambini come gioco pedagogico di pura dilettazione. Gioco che si è praticato nei salotti aristocratici come nelle osterie. Un gioco che piace tanto perché è allo stesso tempo semplice ed avvincente. Per tante ragioni il visitatore della mostra potrà leggere in modo diverso i singoli giochi dal momento che ogni tentativo di lettura implica scelte non univoche, data la varietà dei contesti sociali e geografici da cui essi provengono. Come si noterà, all’interno di una sostanziale coerenza formale e regolamentare del gioco, l’illustrazione del tavoliere incessantemente si modifica in conformità alle variazioni apportate dalla cultura, dal costume e dall’approccio ludico dei gruppi sociali. Non deve, pertanto, sorprendere se dal Gioco dell’Oca, a partire dal XVII secolo, trovano ispirazione numerose versioni e adattamenti, tradizionalmente classificati come giochi di percorso. Senza addentrarci negli aspetti specifici di ogni gioco, non si può non evidenziare che alcuni (Il Giuoco della Birba, Il Giuoco dei Personaggi, Il Giuoco del Barone, Il Gioco delle Scimmie, Il Viaggio immaginario in Treno) sono chiaramente modellati, per tipologia e regole, sul Gioco dell’Oca, mentre altri (Il Novo e Piacevole Gioco del Pela il Chiù, Il Gioco delle Donne e sue facende, Il Gioco della Civetta) appartengono di fatto alla categoria dei giochi di dadi, trattandosi di giochi in cui il tavoliere, come spiega con sufficiente chiarezza Giampaolo Dossena, esercita solo una funzione di pura esposizione di regole: in essi, l’apparato illustrativo mai diventa strumento di gioco. I restanti giochi (Il Nuovo e Piacevole Giuoco del Biribisse, Il Novo e Dilettevole Giuoco Romano, i giochi di Lotteria) attengono, a tutti gli effetti, al gioco di puro azzardo. Essi fanno parte della grande famiglia delle lotterie dove la sorte è la sola padrona. Il ruolo attivo e passivo del destino li accomuna al Gioco dell’Oca. La nascita Dov’è nato il Gioco dell’Oca? La maggior parte dei cultori della materia, basandosi quasi sempre sulla testimonianza che Pietro Carrera riporta ne “Il giuoco de li scacchi”, pubblicato a Militello nel 1617, rispondono: in Italia. La risposta è dovuta ad una fonte storica, peraltro mai verificata, che documenta il dono di un esemplare del gioco mandato, verso il 1580, da Francesco dei Medici a Filippo II di Spagna. L’arrivo del gioco in Spagna è testimoniato, indirettamente, da Alonso de Barre che, pubblicando nel 1587 la sua “Filosofia cortesana”, applica lo schema di percorso del gioco dell’oca alla carriera dell’uomo di corte. In assenza di altri riscontri oggettivi, la risposta è forse dovuta, per analogia, alle notorie fortune che i giochi e le feste godevano presso la corte fiorentina, per cui un gioco da sempre definito nobile, e all’origine fortemente caratterizzato sul piano della civiltà aristocratica e borghese, difficilmente avrebbe sopportato natali meno nobili ed enigmatici di quello della Firenze rinascimentale. È un sigillo di nobiltà che sembra quasi confutare un’altra tradizione, sicuramente più fantasiosa, nata negli ambiti degli studia ludorum del XVII secolo che, alla ricerca di archetipi sepolti nella mitologia, suggerivano di rintracciarne i natali nella polivalente inventività di Palamede, il quale, durante la guerra di Troia, "ad comprimendos otiosi seditiones exercitus", offre ai soldati, con la scoperta dei giochi di dadi, l’opportunità di scaricare le tensioni belliche. Digressione mitologica che continuerà ad aleggiare in area francese dove il gioco dell’Oca in innumerevoli edizioni del Settecento e dell’Ottocento viene proposto col sottotitolo di gioco "renouvelé des Grecs". Con sullo sfondo la nascita mitologica e fascinosa del mondo classico e rinascimentale, i cultori della materia, aprendo gli scrigni delle fonti storiografiche, riferiscono che la prima testimonianza certa dell’esistenza e della pratica del gioco è quella che si ritrova nello Stationer’s Hall di Londra, dove un’iscrizione, lì posta il 16 giugno 1597, menziona appunto “Il nuovo e molto dilettevole giuoco dell’Oca”. A tale sicura fonte ne segue cronologicamente un’altra, questa volta indiretta, appartenente all’area francese: Héroard, medico e precettore del futuro re Luigi XIII, nei suoi Memoires, pubblicati nel 1612, svela che tra i suoi giochi rumorosi, l’infante reale ama riposarsi giocando all’Oca. Bisogna attendere solo due anni per avere anche per l’Italia una prima attestazione documentale, anche questa indiretta, della presenza del gioco. Essa è contenuta nel fondamentale inventario delle immagini profane e religiose redatto nel 1614 da Michelangelo Vaccari dove si trova appunto citata, insieme al gioco del “Pela il Chiu”, l’incisione raffigurante “Il Gioco dell’Oca”. L’esemplare citato dal Vaccari, come tante altre stampe popolari ivi elencate, non è purtroppo a noi pervenuto. Per l’Italia l’attestazione diretta, e questa volta incontrovertibile, del gioco arriva nel 1640 quando Carlo Coriolani incide a Venezia “Il Dilettevole Gioco di Loca”, universalmente riconosciuto come il più antico tra quelli a noi pervenuti. Un esemplare che nell’aspetto non solo grafico diventerà il privilegiato punto di riferimento delle innumerevoli edizioni a stampa che di lì a poco inonderanno, con grandi varianti di simboli e di stili, l’intera l’Europa. Con l’edizione veneziana l’Italia diviene a tutti gli effetti la culla primigenia del gioco la cui fortuna ludica, dalla seconda metà del Seicento, non conoscerà più battute d’arresto. Una fama che già alla fine del Seicento si riverbera, con precisi intenti moraleggianti, anche nelle opere teatrali e nei rapporti epistolari, come testimoniano alcuni passi de “Le Joueur”, pubblicata nel 1696 da J. F. Regnard (1655-1709), dove l’autore (scena I, VII) fa dire a uno dei protagonisti che, nel giocare, è consigliabile praticare il “joli jeu que l’oie” poiché è un gioco galante “où l’esprit se déploie”, a differenza dei giochi d’azzardo che “n’attirent rien de bon”. Era dello stesso parere, due decenni prima, M.me de Sévigné (1626-1696 ), Marchesa de Chantal, quando in una lettera al figlio, che porta la data del 9 marzo 1673, così scrive: “ je voudrais bien que vous n’eussiez joué qu’à l’oie et que vous n’eussiez pas perdu tant d’argent”. Se il Seicento è il secolo che ne precisa l’espressività iconografica e ne fissa editorialmente anche la proprietà ludica - come attesta la specifica qualifica di gioco conferitagli nel 1654 da De La Marinière nella sua “Maison Académique” - il Settecento e l’Ottocento ne consolideranno fama e fortuna. Il gioco, trovando risonanza e fruizione presso tutti i ceti sociali, allarga la sua scenografia, raffigurando la società, le culture, i comportamenti, i modelli di vita. A differenza di altri giochi, si popolarizza con temi e stilemi, di volta in volta adattati, sul modello originario, ai gusti, ai desideri e ai valori del potenziale fruitore. Una divulgazione che non conosce alcun ostacolo, neanche di tipo censorio, visto che, sul versante della liceità religiosa e politica, non è considerato, expressis verbis, gioco d’azzardo, per cui il gioco è libero di impazzare, anche come puro gioco di ricreazione, in ogni contesto sociale, divenendo anche un efficace strumento di propaganda politica e commerciale, oltre che divertente sussidio didattico volto alla conoscenza di nozioni e valori inerenti ai campi più diversi. La storia, la mitologia, la geografia, il costume, la religione, le invenzioni della prima età industriale, i prodotti commerciali da affermare sul mercato diventano occasioni narratologiche tutte riconducibili ad una dimensione ludica, con l’attraente palmipede in veste di formidabile veicolo di Weltanschauung o pretesto di popolare rispecchiamento di ideologie sociali e di insegnamenti morali. La funzione ludica dell’intrattenimento e del libero divertimento si associa alla funzione comunicativa, per cui gli elementi iconografici che arredano le cornici o le scenette centrali del tavoliere non di rado contengono elementi realistici tratti dalla cronaca diretta. Tra i tanti esempi, il più emblematico è senz’altro quel gioco dell’Oca inglese, riprodotto da R. C. Bell, che nei medaglioni che circondano il tavoliere mostra i ritratti, recanti anche i nomi e i cognomi, di un ladro giustiziato e di colui che lo acchiappò, a sua volta giustiziato, per ricettazione, poco dopo. Stampato presumibilmente tra il 1724 e il 1725, le due date documentate dell’avvenuta impiccagione di entrambi, “The Royal and most Pleasant game of the Goose”, assume anche la funzione dell’avviso pubblico che informa e ammonisce, attraverso uno strumento che sicuramente doveva avere una divulgazione ben superiore ai tradizionali strumenti d’informazione. Il nome Perché gioco dell’Oca? Al lettore, sulla base di queste e di altre considerazioni che qui si tralasciano di riassumere, non è dato di conoscere quali siano state le ragioni storiche o culturali che all’originale inventore abbiano suggerito di dare al gioco il nome dell’Oca, creando un connubio che ha avuto un prosieguo di così grande successo in tutte le parti del mondo. Anche in questa circostanza, nessun documento o fonte storica menziona la scelta effettuata. Senz’altro suggestive le ipotesi che, sulla scorta della tradizione classica, riconducono la scelta alla grande considerazione, sicuramente non solo culinaria, che l’animale avrebbe goduto presso tutti i popoli nel mondo antico. Animale saggio per eccellenza, secondo quando riferisce Plinio nella “Naturalis Historia”; animale emblema della custodia vigile e incorruttibile del Campidoglio, secondo quanto riporta Vegezio nel “De re militari”; animale prelibato per le sue carni tanto da essere offerto come cibo agli dei da Filemone e Bauci, secondo quanto narra Ovidio nelle “Metamorfosi”; tutto ciò avrebbe contribuito non poco ad eleggere il palmipede a figura simbolo di ogni vittoria. Altro elemento, anche questo molto suggestivo, è la valenza divinatoria attribuita all’oca nel corso dei secoli. Oltre ad essere venerata dagli egizi come ministro della dea Iside, indicata dalla religione buddista come simbolo dell’ascesi celeste e più volte celebrata nelle mitiche saghe di ogni paese del mondo come emblema di inventività e di moralità, l’oca è associata alla consultazione della sorte. La valenza divinatoria o iniziatica è elemento caratteristico della “Sfera dell’Occa” riportata più volte nella letteratura, a soggetto astrologico-cabalistico-divinatorio, del Rinascimento italiano. L’altra ipotesi, molto più verosimile, anche se meno affascinante sul versante della sensibilità culturale, è legata al valore d’uso e di scambio che l’oca ha storicamente avuto nella storia della civiltà culinaria. È innegabile che l’oca, al pari del maiale, è da sempre considerato un animale di cui nulla si butta. Dalle piume, alla carne, dal fegato e alle zampe -le zampe d’oca abbrustolite e spellate erano tra i cibi prelibati più apprezzati, secondo Plinio, dai Romani - tutto è utilizzabile. Inoltre più del maiale è facilmente allevabile in ogni condizione ambientale e alla sua carne non è fatto divieto alimentare da nessuna religione. Quale miglior premio per un giocatore? Il D’Allemagne ritiene che il connubio oca-gioco sarebbe appunto derivato dall’usanza dei giocatori di impiegare la vincita nell’acquisto di una grossa oca da imbandire in tavola. L’ipotesi è sicuramente molto convincente. E per renderla ancora più convincente ho giudicato doveroso apportare una mia recente scoperta che vale come testimonianza storica più antica di quelle prese in considerazione dallo studioso francese. E’ un “Emblema”, pubblicato a metà del Cinquecento da Giovanni Sambuco (1531-1584), col significativo titolo di “Iocus Questuosus” (Gioco redditizio). L’”Emblema”, sconosciuto ai cultori della materia e quindi mai riportato tra le fonti storiche del gioco, rappresenta due aristocratici intenti a giocare intorno ad un tavolo, a dadi e a carte, mentre una popolana, poco distante dal tavolo, accudisce una opulenta oca. L’iconografia si accompagna ad un testo esplicativo che, scritto in latino, in chiave moralizzante, ammonisce a non abusare del gioco, dato che coloro che lo praticano per arricchirsi, finiscono per svuotare “le loro borse gonfie, nutrono la gola con le carte da gioco, fanno più grosso il fegato dell’oca con insaccati strapieni, decorano con lusso le mense, spogliano i Campidogli del loro custode per svuotare meglio gli scrigni”. Tutta l’iconografia del gioco prodotta successivamente porta nella direzione indicata dallo studioso francese: l’oca, ancora da cacciare, come nella scena centrale dell’esemplare del Coriolani, o posta già fumante sulla tavola riccamente imbandita, come mostrano le innumerevoli incisioni che adornano i tavolieri originati in ogni parte d’Europa, per la prelibatezza delle sue carni, è il premio a cui ogni giocatore ambisce. A mo’ di esempio, si guardi la litografia, qui riprodotta, della Biblioteca Classense che riproduce il “Nieuw Vermakelijk Ganzenspel” (Il nuovo dilettevole gioco dell’Oca, cat. 114), incisa in Germania verso il 1880, dove tutte le illustrazioni portano a confermare tale tesi. L’oca, raffigurata mentre guazza nello stagno, mentre viene letteralmente ingozzata dalla contadina, mentre viene sezionata e resa pronta per la cottura, è il premio finale che finisce sulla tavola imbandita di una famiglia borghese. Le regole Come si gioca? Utilizzando la significativa classificazione che Giampaolo Dossena ha individuato per i giochi incisi dal Mitelli, il gioco dell’Oca appartiene alla categoria dei giochi di dadi con tavoliere. Il tavoliere traccia, in senso orario, un percorso suddiviso in 63 caselle (esistono varianti che ne contemplano anche 90) le quali, distinte in fauste e infauste a mezzo di simboli, segnano l’andamento “altalenante” del gioco. Si gioca con due dadi, un segnaposto ed un numero di gettoni di valore convenuto tra i giocatori. Il numero dei partecipanti può variare: il minimo è formato da due persone; se giocato con funzione essenzialmente divinatoria o per pura paidia, direbbe Caillois, nulla vieta che il giocatore possa essere uno solo. Dopo aver stabilito il turno a sorte, i giocatori lanciano i dadi e, sulla base del punteggio realizzato, posizionano il proprio segnaposto sulla casella corrispondente. Il percorso può essere ritardato da vari ostacoli o accelerato se il destino posiziona il giocatore nelle caselle recanti l’immagine dell’Oca. Un’immagine decisamente fausta che permette sempre di raddoppiare o addirittura di vincere al primo lancio di dadi. Infatti, ottenendo di prima mano il 9, attraverso i conteggi assegnati alle caselle raffiguranti l’Oca si raggiunge automaticamente il 63. Per ovviare a quest’ultima eventualità i tavolieri più classici si guardi l’esemplare inciso dal Coriolani - codificano un diverso meccanismo: le caselle 26 e 53, debitamente segnalate con dadi e apposite didascalie, impediscono, col semplice lancio del 9, di raggiungere automaticamente la meta. Gli ostacoli sono storicamente simboleggiati dal Ponte, dall’Osteria, dal Pozzo, dal Labirinto, dalla Prigione e dalla Morte. Sono ostacoli variamente graduati per cui chi raggiunge il Ponte paga il pedaggio e si porta al numero 12; all’Osteria si paga e si sosta per un giro; chi cade nel Pozzo perde due giri a meno che sulla stessa casella non sopraggiunga nel frattempo un altro giocatore, permettendogli così di retrocedere fino alla casella da cui l’altro si è mosso; chi s’infila nel Labirinto paga e torna indietro al 29; chi entra in Prigione paga e lì resta fino a che non finisce nella stessa casella un altro giocatore che ne prende il posto; infine chi è toccato dalla Morte paga e retrocede alla prima casella per ricominciare da capo il gioco. Il cammino si conclude vittoriosamente solo se il giocatore riesce a raggiungere, con tiro esatto, la casella 63, l’ambito Giardino dell’Oca. Le regole che hanno concorso ad istituzionalizzare il gioco dell’Oca non subiscono, attraverso i secoli, sostanziali variazioni; anche se queste avvengono, la struttura complessiva del gioco non viene stravolta. Comunque, nessuna preoccupazione: le regole specifiche, comprese le modifiche apportate alle regole classiche, nella maggior parte dei tavolieri, sono riportate o al centro o alla base del tavoliere stesso. Esse vanno sempre osservate; non sono ammesse turbolenze. Ancora più chiaramente Caillois: “Le regole sono inscindibili dal gioco. Entrano a far parte della sua natura e lo trasformano in strumento di cultura fecondo e decisivo”. Il gioco, almeno nel Seicento e nel Settecento, deve intendersi come gioco praticato esclusivamente da adulti, a cui si commisura anche socialmente ed emotivamente. Utilizzando il tradizionale sistema di classificazione, formulato dal Caillois, il Gioco dell’Oca rientra nella categoria dei giochi di Alea. Scrive il sociologo francese che “il destino è il solo artefice della vittoria e questa, quando c’è rivalità significa esclusivamente, che il vincitore è stato più favorito dalla sorte del vinto. [...] E l’alea che sottolinea il favore del destino. Il giocatore deve solo aspettare, con speranza e trepidazione, il verdetto della sorte”. Esso è dunque tra quelli che segna nel giocatore l’abbandono al proprio destino. Un destino che il tavoliere mostra e simula nelle sue mille sfaccettature, dove la proposizione in forma figurata del percorso della vita e della morte altro non è che l’espressione simbolica e analogica, e finanche iniziatica, del suo corso reale. È il destino che porta il giocatore nelle caselle delle pene e dei premi e il giocatore sta al gioco poiché esso diventa il simbolo di qualcosa che ha in sé e oltrepassa ogni vita. Il piacere della vittoria, oltre che nella posta finale rappresentata dall’avere l’oca in tavola o, molto più presumibilmente, dall’avere tanto più argent in tasca, deriva anche dalla consolazione di aver la fortuna al proprio fianco. Con la perdita il giocatore penserà sempre di più al proprio destino baro e cieco. L’alea si associa alla vertigine e una particolare ebbrezza coglie sia il giocatore favorito dalla sorte, sia quello perseguitato dalla sfortuna, annota, a tal proposito, sempre Caillois. E perciò difficile delineare, con questi presupposti, la sua genesi di gioco infantile. Ad esclusione della richiamata nota del medico Héroard, non si intravedono ancora con esattezza i processi e le modalità che ne hanno generato la pratica didattico-pedagogica. La struttura grafica e regolamentare del gioco destinato all’infanzia resta sostanzialmente uguale a quello praticato dagli adulti. A cominciare dall’espressione che lo designa, il gioco prodotto per l’infanzia conserva la stessa configurazione a spirale del tavoliere, i medesimi messaggi simbolici raffigurati nelle caselle e le stesse regole di gioco che adopera l’adulto. Anche per il bambino è il caso che decide. Ma è l’universo ludico che si differenzia. All’utilitas del gioco dell’adulto il bambino sostituisce la pura e semplice delectatio, ispirata e arricchita da quegli elementi figurativi come il Ponte, il Labirinto, il Pozzo, la Prigione, l’Osteria - ritrovo dei “grandi” -la Luna, il Sole eccetera; tutti luoghi che nella simulazione infantile diventano fantastiche situazioni esistenziali, generando un processo di fabulazione che può accomunare il gioco dell’Oca a tanti racconti di fiaba. Così, la docile e premiante oca diventa l’aiutante magico in grado di condurre il piccolo giocatore nel suo felice giardino... La fortuna Come mai tanta popolarità? In effetti l’esito di una conservazione e di una istituzionalizzazione sorprendentemente pura del gioco dell’Oca ha contribuito non poco alla sua indiscussa popolarità. La fruizione del gioco, pur attraverso la stesura di numerose varianti, è sempre avvenuta nel sostanziale rispetto del nucleo originario. Il moltiplicarsi di stesure diverse mai apportano autentici rifacimenti, ma solo adattamenti, per lo più figurali, determinati dagli influssi estetici delle diverse epoche storiche e dai nuovi gusti che pervadono le cerchie dei fruitori, interessati storicamente da profonde trasformazioni culturali e sociali. Tutto ciò lo si ricava, se non altro, osservando le decorazioni e le illustrazioni che adornano i tavolieri. Accanto ai fastosi, scenograficamente dirompenti, esemplari prodotti per i salotti aristocratici del Sei -Settecento si affermano parimenti esemplari di intonazione più umile, disegnati da oscuri artisti e prodotti per un mercato formato via via dalla nascente borghesia o dai ceti medi e operai delle campagne e delle città. Non potendo noi ammirare, perché scomparso, l’admirable "jeu de l’oie" che nel 1758 Horace Walpole poté osservare nel salotto della duchessa di Norfolk, si guardi l’esemplare della Biblioteca Classense, qui riprodotto, che A. Schimidt incide in Germania verso il 1687 (cat. 101). La scena centrale raffigura, circondato da un paesaggio architettonicamente ben definito, un sontuoso salotto aristocratico animato da dame e cavalieri che rallegrano il loro conversare con l’ascolto della musica. La cornice del percorso è illustrata con tre scene anche queste di stilizzata ambientazione aristocratica. Un portale altrettanto ben stilizzato introduce al percorso del gioco, dove anche le figure che illustrano gli ostacoli rispecchiano il gusto e il costume di un ceto aristocratico. Basti osservare le caselle 19 e 58, con una Locanda che sembra un castello e la raffigurazione della Morte talmente stilizzata da respingere ogni sensazione cruenta. Viceversa, si guardi in antitesi la silografia acquerellata della Raccolta Bertarelli, anche questa riprodotta, che Pietro Agnelli incise a Milano un secolo più tardi (cat. 103). Al salotto aristocratico si sostituisce un anonimo salotto borghese, arredato solo con un tavolo intorno al quale siedono due giocatori intenti a giocare e a bere. Uno dei due è visibilmente disperato, forse a simboleggiare, in negativo, la vertigine che una forte perdita può causare. Quattro donzelle, dal tratto artistico poco affinato, ne decorano la cornice. Le caselle 19 e 58 al posto della sontuosa locanda raffigurano rispettivamente una ben più modesta Ostaria e una immagine della Morte sicuramente più cruenta di quella incisa nel gioco tedesco. La sua fortuna appare, quindi, un fenomeno tanto clamoroso quanto difficile da cogliere con esattezza sia nelle sue dimensioni che nelle sue modalità. I tavolieri, disegnati da artisti oscuri e famosi, incisi nelle maggiori officine tipografiche d’Europa, da quelle dei De Rossi, dei Remondini, dei Soliani in Italia a quella straordinaria di Epinal in Francia, delineano il divulgarsi di un gioco che non conosce confini geografici e nutre la sensibilità collettiva di ogni fascia d’età e di ogni ceto sociale. Un gioco che, nato presumibihnente nobile all’interno delle corti, si afferma come gioco d’azzardo e gioco d’esprit nei salotti aristocratici e borghesi, raggiungendo la massima fortuna quando diviene patrimonio non solo ludico dell’imagerie populaire. |
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