Giochi dell'Oca e di percorso
(by Luigi Ciompi & Adrian Seville)
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Nome autore: Mitelli Giuseppe Maria 
Nazionalità: Italia 
Città: Bologna 
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MITELLI, Giuseppe Maria. – Nacque a Bologna nel 1634 da Agostino, noto pittore e incisore, e da Lucrezia Penna.
Secondo quanto ricorda il fratello Giovanni nella Vita et opere di Agostino Mitelli, manoscritto contenente notizie anche sul M. (cit. in Varignana, p. XII), si formò presso alcuni artisti importanti, studiando, tra gli altri, con Simone Cantarini, Francesco Albani, il Guercino (Giovanni Francesco Barbieri) e Flaminio Torri. Della sua attività pittorica, tutt’altro che limitata stando alle testimonianze antiche (ibid., pp. LXVII-LXXI), rimane però un corpus assai esiguo, composto di poche unità e oscillante tra l’adesione ai modelli del classicismo bolognese e una maniera meno aulica particolarmente nei soggetti profani, debitrice di certi sperimentalismi compositivi dell’incisione e soprattutto di quella popolare; a tale arte, del resto, egli dedicò gli sforzi maggiori, avviato con ogni probabilità dal padre, lasciando circa seicento stampe eseguite in larghissima prevalenza all’acquaforte.
Nel 1658 partì alla volta della Spagna al seguito del padre, ingaggiato dalla corte asburgica insieme con il socio Angelo Michele Colonna. Non è dato sapere se a Madrid prendesse parte in qualche misura alle opere della bottega paterna; durante il breve soggiorno spagnolo, comunque, come attesta la già menzionata Vita (García Cueto, p. 234), il M. fu impegnato soprattutto nel trarre disegni da alcune delle più importanti tele della collezione reale e in particolare da quelle di Tiziano e Antoon Van Dyck. Negli ultimi mesi del 1659 il M. era di nuovo a Bologna. L’anno successivo si recò a Venezia dove conobbe Marco Boschini e realizzò disegni dai dipinti dello stesso Tiziano, di Veronese (Paolo Caliari) e Tintoretto (Iacopo Robusti). Come si apprende dall’iscrizione che accompagna l’immagine, il 24 febbr. 1660 il M. licenziò la sua stampa più antica nota. Si tratta di un’acquaforte che riproduce la Cena in casa di Simone di Paolo Veronese compiuta dal pittore per il convento dei Ss. Nazaro e Celso di Verona, ma dal 1646 parte della collezione genovese degli Spinola e oggi alla Galleria Sabauda di Torino. Nello stesso 1660 il M. pubblicò le Arti per via, una serie di 40 acqueforti derivate dalle invenzioni di Annibale Carracci, tradotte a stampa nel 1646 in 80 tavole da Simone Guillain. Il M. inaugurò con l’impresa, edita dal romano Giovanni Giacomo De Rossi, una fiorente produzione di immagini di tema popolare, che divennero una sorta di marchio di fabbrica dell’incisore bolognese. Quando lo raggiunse la notizia della morte del padre, avvenuta il 2 agosto 1660, il M. si trovava a Venezia. Zanotti (p. 183) asserisce che egli tornò a Madrid per prendere possesso dei beni che gli erano stati lasciati in eredità. Questo secondo viaggio spagnolo non è però altrimenti documentato. È invece testimoniato nella corrispondenza della corte fiorentina (García Cueto, pp. 237 s.) che egli chiese al cardinale Giovanni Carlo de’ Medici, già committente del genitore, di intercedere presso gli spagnoli per ottenere la riscossione di alcune somme dovute ad Agostino. Nell’aprile del 1661, comunque, si registra nuovamente la sua presenza a Bologna (ibid., p. 237, n. 637). Come indicano anche le opere citate, nella prima fase della sua carriera il M. dovette cercare di accreditarsi soprattutto come incisore di traduzione, lavorando su alcuni classici della pittura bolognese e veneziana. In questa attività rientra la realizzazione, nel 1663, dell’Enea vagante, gruppo di 12 acqueforti dedicate a Leopoldo de’ Medici e basate su disegni di Flaminio Torri, che riproducono le storie dell’eroe troiano affrescate dai Carracci in palazzo Fava a Bologna. Sempre al campo della traduzione appartengono altre serie databili agli anni Sessanta: i Disegni et abbozzi di Agostino Mitelli, 24 tavole raffiguranti parte del repertorio ornamentale del padre (mascheroni, elementi architettonici, cartelle decorative, ecc.), le 11 incisioni con particolari di dipinti di Guido Reni, Ludovico Carracci e dello stesso Torri, precedute da un frontespizio intitolato Mitelli intagliò, oltre a diverse stampe, tra gli altri, da Tiziano, Veronese e Tintoretto. Del 1670 è il più antico dipinto del M. conservato, la Madonna col Bambino e s. Francesco in estasi (Montechiaro di Sasso Marconi, collezione privata; Varignana, tav. X), chiaramente ancorato ai paradigmi della cultura figurativa emiliana seicentesca. Dalla metà degli anni Settanta il M. incrementò la realizzazione di stampe di soggetto moraleggiante, concentrandosi sui temi della caducità dell’esistenza umana e della vanità delle cose terrene, che ne contraddistinsero il catalogo fino agli anni estremi. Uno dei suoi lavori più noti, le Ventiquattr’hore dell’humana felicità, del 1675, costituisce un esempio paradigmatico del genere maggiormente frequentato dal M., ed è rappresentativo delle strutture compositive e dello stile prediletti.
Le 24 tavole, alle quali vanno aggiunti il frontespizio e un foglio raffigurante il Tempo, in cui si ripete il titolo, mettono in scena, con segno piuttosto semplice, diversi tipi umani (Donna superba, Avaro, etc.), spesso in atteggiamenti emblematici rispetto all’inclinazione simboleggiata. In ciascun foglio sono inoltre inserite due quartine, ascrivibili al fratello Giovanni (Varignana, p. 252), che articolano una sorta di dialogo tra i personaggi e la Morte, protagonista dell’ultima incisione della sequenza. L’integrazione di testo e materiale iconico, funzionale alla dilatazione del senso di ogni stampa più che alla semplice spiegazione delle parti figurate, divenne una soluzione sistematicamente ricorrente nei rami del M., risultando un elemento peculiare delle sue procedure compositive. L’artista licenziò poi, nel 1678, i Proverbi figurati, serie dedicata a Francesco Maria de’ Medici e composta di 48 acqueforti che, facendo interagire i codici linguistico e visivo, illustrano altrettante massime di derivazione per lo più popolare. L’efficacia retorica di tali immagini risiede nella semplicità strutturale, aspetto consueto della maniera del M., quasi sempre portato ad insistere sull’icasticità e l’immediatezza comunicativa più che sulle raffinatezze del segno, di cui pure era perfettamente capace. Alla fine degli anni settanta il M. alternava ancora il lavoro di invenzione a quello di traduzione. Nel 1679 pubblicò, ad esempio, una raccolta di 12 incisioni raffiguranti alcune delle tele più celebri conservate nelle chiese di Bologna, riproducendo opere, tra gli altri, dei Carracci, di Francesco Albani e Guido Reni. Qualche tempo dopo invece, nel 1683, ottenne grande successo, anche internazionale, con le originali invenzioni dell’Alfabeto in sogno, in cui ogni foglio, attorno alla lettera costruita attraverso la congiunzione di figure diverse, presenta un prontuario di modelli soprattutto anatomici di carattere didattico. A partire dallo stesso 1683, anno dell’assedio di Vienna, e per circa un decennio, il M. creò alcuni tra i suoi lavori più significativi, realizzando acqueforti di vario genere legate alle guerre che coinvolsero le nazioni cristiane contro i Turchi. Di nitida matrice propagandistica, evidente nell’impiego di molti degli stereotipi cristallizzati nella rappresentazione occidentale degli Ottomani (si vedano il Muftì del 1683 e Regali che fa il turco ai suoi fedeli del 1686), tali stampe presentano come qualità saliente un registro schiettamente satirico sia per ciò che concerne lo stile, spesso alquanto corsivo e tendente alla caricatura, sia per quanto riguarda la scelta dei soggetti, non di rado umoristici (Consultazioni di medici nella grave malattia del sultano, 1686; È vinta Buda, 1686; Dirindina fa’ fallò, 1686).
Dalla metà degli anni Ottanta, inoltre, il M. intensificò l’invenzione di Giochi, illustrati e spiegati in fogli singoli o in piccole serie, che dovettero costituire un settore rilevante all’interno della sua officina, a giudicare dal cospicuo numero di rami conservati. Accanto a motivi popolari, nei Giochi si trovano talvolta riferimenti all’attualità e alla politica internazionale, come nel caso de Il gioco nuovo del Turco, del Tedesco e del Veneziano, databile intorno al 1685, o ne Il gioco della speranza (1699), tradendo anche in questi casi la spiccata vocazione cronachistica che segnò la tarda attività dell’artista. Nel 1689 è documentato un soggiorno romano (Roli). Non sono da escludere, tuttavia, altri periodi trascorsi nella città pontificia: un indizio relativo a una possibile permanenza precedente, per esempio, è costituito dalla stampa che traduce la Visione di s. Filippo Neri affrescata nel 1664 da Pietro da Cortona sulla volta della chiesa di S. Maria in Vallicella e pubblicata da Arnold van Westerhout nel 1666 a Roma. Occorre altresì far menzione del fatto che il M. mantenne negli anni un fecondo rapporto con De Rossi, titolare di una delle principali stamperie romane e editore di varie sue opere. Nell’ultimo decennio del secolo il M. dedicò diversi fogli anche ai conflitti tra le monarchie europee (Agli appassionati per le guerre, 1690; Il mondo a pezzi, 1690; Pace pace non più guerra, 1697; Vino di Spagna, 1700), delineando allegorie di felice invenzione iconografica e quasi sempre agevolmente comprensibili, che costituiscono un efficace compendio degli avvenimenti contemporanei su cui forniscono informazioni e commenti attraverso l’usuale combinazione di testo e immagine. Nel 1691 pubblicò la tante volte replicata serie di 12 acqueforti con i Mesi, raffigurati per lo più con il tipico tratto sintetico e prossimo alla caricatura e arricchiti da un breve testo di spiegazione. Risale invece al 1696 la tela intitolata Sogno di un cacciatore, già in collezione privata e oggi irreperibile (Varignana, tav. XIV).
Il dipinto mette in scena un’allegoria piuttosto complicata sul tema del mondo alla rovescia, sfruttando un metodo compositivo basato sull’accumulazione di scene apparentemente irrelate, che ricorre anche nella produzione incisoria coeva, della quale peraltro il M. reimpiegò in questa occasione alcuni motivi. Sul finire del secolo egli firmò inoltre un’ulteriore serie didattica, realizzando 12 tavole raffiguranti i Sensi, le Stagioni e le Parche, contornati da dettagli anatomici, volti e mascheroni. In vecchiaia l’artista rese più volte sé stesso protagonista delle immagini dedicate alla riflessione sulla transitorietà delle attività umane, come nel caso della stampa intitolata Ch’ha’ fatt’ha’ fatt’, datata 1698 e più che verosimilmente da considerare un autoritratto, sia pure in disguise.
Il rame rappresenta, sullo sfondo di un caseggiato in rovina, un uomo maturo, nella posa del melanconico, circondato da un gruppo di oggetti che alludono alle occupazioni preferite del M., dagli strumenti dell’arte al fucile, emblema dell’amata caccia. Analogo dal punto di vista tematico è Il costume per natura sino alla fossa dura, del 1707, in cui è identificabile un altro "autoritratto" dell’incisore, da riconoscere nel personaggio che si avvia, curvo sotto il peso delle sue attività predilette, verso una fossa affatto eloquente.
Nell’ultima parte della carriera, oltre a proseguire la pubblicazione del consolidato repertorio di stampe moraleggianti, il M. dedicò un certo spazio anche alla rappresentazione di soggetti legati alla vita bolognese.
Realizzò, tra l’altro, l’Entrata solenne del gonfaloniere (1700), la Veduta di S. Onofrio (1700), l’Antiporta per un viaggio della beata Vergine di s. Luca (1700), la Processione della s. Benda (1701), Le arti di Bologna (1703), le Armi dei senatori bolognesi (1703), il Compendio dello stato di Bologna (1705), i Monasteri di monache che son in Bologna (1706). Il M. fu infine, nel 1711, tra i fondatori e uno dei primi direttori dell’Accademia Clementina di Bologna. Morì a Bologna il 4 febbr. 1718 (Feinblatt, p. 733).
(da: "Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 75, 2011, a cura di Francesco Sorce)
 

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